C’è qualcosa di poco politically correct che girà nei bassifondi dell’aziende senza che qualcuno abbia il coraggio di esplicitarlo… diciamocelo:
La Generazione Zeta non ha voglia di lavorare!
Il problema è che di loro abbiamo bisogno: perché sono nostri clienti e perché sono i nostri futuri colleghi. Allora, proviamo a tagliare a fette l’elefante problema e vediamo che ne esce fuori.
Un interessante report di Linkedin (Linkedin Global Talent Trends 2022) ci dà alcuni numeri di giugno 2021, e visto che stiamo parlando di quasi 20.000 utenti in tutto il mondo, forse può valere la pena approfondire.
Chi si occupa di selezione, sa che il problema della generazione zeta non è soltanto attrarli (quindi quale Employer Branding) ma soprattutto trattenerli.
Generazione Zeta e flessibilità: cosa intendono?
L’indagine ci dice che il 77% dei nati dopo il 1996, i freschi di laurea per intenderci, si sentono ingaggiati da aziende che sponsorizzano il proprio essere flessibili. Il 47% in più dei loro fratelli grandi Millenials. Argomento a cui i nati prima del 1980 sembrano completamente estranei.
Possiamo leggere questi dati con il pregiudizio detto sopra (lo confesso subito, non sono d’accordo e spero di riuscire a spiegare perché) e affermare che il motto è “lavorare il meno possibile”.
Oppure possiamo aggiungere a questa slide un’altra, che dimostra l’enorme valore che i giovanissimi danno alla salute mentale, al benessere, al prendersi cura di chi è in difficoltà: il 66% di loro lo ritiene il principale investimento che dovrebbero fare le aziende per le persone. E stavolta, anche se in proporzioni diverse, tutte le generazioni aziendali (dal 31% al 51%) lo ritengono una priorità.
Benessere a lavoro: questione di cultura
E quando i dipendenti “sentono” che l’azienda si sta prendendo cura di loro, allora sono felici, restano in azienda e consigliano ad altri di venire a lavorare con loro.
Azzardiamo con il dire che il tema potrebbe essere decisamente allargato. La richiesta di flessibilità, benessere e salute si posizionano in una generazione, la Zeta appunto, che ha le esigenze della sostenibilità e delle sfide dell’Agenda 2030 nel proprio DNA: non riescono a immaginare aziende che fanno profit sfruttando o non valorizzando i propri dipendenti.
E chi vorrebbe essere trattato male a lavoro? Si potrebbe obiettare!
Nessuno, certo. Il problema è chi ha il coraggio di andare via e sottrarsi quando questo accade. Eppure è proprio la cultura aziendale e che sembra essere il punto di partenza per quelli che cercano lavoro.
Oltre ad essere una potente arma di Employer Branding: parlare di cultura raddoppia le visualizzazioni dei post aziendali e aumenta la visibilità degli stessi del 67%.
In più, le persone che sono felici a lavoro, lo dicono di più e sono promotori all’esterno della propria azienda. Semplificando all’estremo: non c’è bisogno di fare Employer Branding se i tuoi dipendenti attuali sono soddisfatti di lavorare per te! (per approfondire come l’Employer Branding abbia a che vedere con la Employee Experience clicca qui)
Persone felici: chiave per l’Employer Branding
Le aziende stanno iniziando a riconoscere come la chiave del successo sia promuovere una cultura che dà la priorità al benessere mentale, fisico ed emotivo, dei dipendenti.
Oggi, dietro al benessere dei dipendenti ci sono empatia, comprensione e fiducia. Servono leader in grado di capire la situazione e di accettare o proporre soluzioni creative, inclusive e d’ispirazione, anziché chiedere di lavorare nel weekend o di rispondere alle email in piena notte.
Il cambio non passa solo per le persone, deve essere profondamente organizzativo: per garantire un benessere reale, le aziende devono adottare nuove strategie che sostengano il benessere fisico e mentale dei dipendenti. Siamo d’accordo con LaMoreaux,
Dalla rivoluzione industriale, le aziende non hanno mai più avuto bisogno di riflettere davvero sulla progettazione del lavoro, su quali operazioni vengono svolte, dove e quando. Su come decostruire il processo per poterlo completare in modo ottimale.
Nickle LaMoreaux, Chief Human Resources Officer, IBM
Great Reshuffle: un grande rimescolamento
Ormai è chiaro che la pandemia ha portato tutti a riconsiderare drasticamente i proprio valori, con enormi conseguenze anche per il mercato del lavoro. È un fenomeno che chiamiamo “Great Reshuffle”: un grande rimescolamento in atto in molte parti del mondo. Mentre le aziende ripensano la propria cultura, i dipendenti vogliono flessibilità ed equilibrio fra vita personale e professionale. Sono più che mai determinati a cercare nuove opportunità quando non ottengono queste condizioni.
Ma oltre a sfide innegabili, il Great Reshuffle offre anche delle opportunità.
Le organizzazioni che reinventano e rinnovano la propria cultura, e il proprio Employer branding, avranno ottime chance di vincere la corsa alla Generazione Zeta.
La cultura aziendale sta cambiando rapidamente: per stare al passo, le aziende devono innovare e guardare avanti, al futuro. È un’opportunità unica per gettare le basi di una cultura che permetta a tutti di dare il meglio sul lavoro e vivere una vita più gratificante.
Employer Branding e Generazione Zeta
E forse questo la generazione Zeta continua a dirci: non importa più “quanto” ma “quanto per quanto tempo” (not “how much” but “how much for how long”), in un’ottica in qui spendere sulla cultura e sul benessere non è un costo, ma un investimento di lungo periodo. In cui il “tempo” diventa la variabile più importante del ROI (ritorno di investimento)
Un’ambizione complessa, una sfida affrontata mai prima d’ora. Dove la consulenza esperta cede il posto ad una consulenza anfibia: la capacità di stare sul limite tra capitale e visione, per far dialogare tutte le parti dell’azienda e immaginare le strategie di business del futuro.
Non è un processo risorse umane: coinvolge finanza e legale. In sinergia per un impatto puro sulla percezione delle persone e dei mercati.
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