Non ci sono alternative. Rinunciare a vivere per non morire.
Vivere appena. Non ci sono alternative.

Leggevo l’ultimo post in 4 puntate di Alessandro Baricco e mi ha risuonato forte questa definizione della sofferta situazione in cui stiamo vivendo. 

“Ufficialmente è una decisione lucida, razionale. Sorpresi da una pandemia, rinunciamo a vivere per non morire”.

Rinunciare a vivere per non morire.

Vivere certo. Ma non viaggiare, non abbracciare, non toccare, non affondare nella poltrona del cinema, non godere dell’arte, non festeggiare in grande, non accompagnare l’altro alla morte. 

In azienda poi: lavorare senza incontrarsi, confrontarsi senza sentire l’odore dell’altro, riunirsi senza possibilità di disconnessione, creare senza ascoltare i respiri. 

Vivere appena. Lavorare appena. Per non morire.

Non ci sono alternative.

Ma è vero?

Per rispondere provo, con Baricco, a fare un esempio circoscritto al contesto lavorativo aziendale: se costruisci l’azienda e la organizzi in quel modo, se ti fidi di un certo tipo di consulenti e deleghi interi processi sulla base dei numeri, se il benessere aziendale ti sembra meno essenziale del volume del fatturato, se la sostenibilità è relegata dentro i processi marginali della CSR, se l’approccio agli affari legali è limitare le denunce e quello di Finanza è tagliare i costi, allora è vero: non c’è alternativa. Devi chiudere i luoghi di lavoro, trasportare tutto su remoto e modificare i processi perché si raggiunga la produttività precedente e prevista. E pazienza per chi non ce la fa: non ci sono alternative. 

“La figura logica è chiara: se io sbaglio una serie di gesti, arriverà un momento in cui fare una cosa sbagliata sarà l’unica cosa giusta da fare.”

Quella che per brevità chiameremo “Logica aziendale” non trova soluzioni che non siano “obbligate” perché la posizione dei pezzi è da tempo determinata da strategie decise nel secolo scorso, i pezzi persi non si possono più recuperare e la stessa strategia applicata non è adatta contro un avversario che, invece, sta giocando con altre regole.

Risultato: there is no alternative.

Dato che tutto questo sta provocando una grande sofferenza e un grande dolore – “contiamo i cuori che si fermano negli ospedali, ma non quelli che se ne vanno, che semplicemente se ne vanno” – allora come professionisti che si occupano di strategie aziendali, ci si impone una domanda: esiste un’altra Logica, più adatta alle sfide che ci aspettano? La stiamo formando da qualche parte, in qualche università, in qualche azienda, in qualche master? 

Abbiamo ragione di pretendere che emerga in superficie nella gestione del mondo, e di pretenderlo con rabbia e determinazione?

Stiamo assistendo a varie battaglie sulla sostenibilità, sul futuro sostenibile, su un nuovo modo di generare impatto attraverso il lavoro. Sentiamo la necessità di una riprogrammazione del futuro senza fame, senza guerra, senza ingiustizia. Un futuro con la parità di genere e di opportunità, dove sia garantita la salute e l’istruzione per tutti, un futuro che concili lavoro e vita privata, produttività e benessere aziendale. E l’Agenda 2030 sembra aver dato voce a questa richiesta forte di Vivere di qualità. Non “appena”. 

Che rapporto c’è tra Logica aziendale e futuro, tra business e sostenibilità?
Si diceva di Logica aziendale, e di certe sue sequenze decisionali destinate a generare sofferenze collettive che invece potremmo risparmiarci. Vogliamo capirne qualcosa di più, tanto per evitare di staccare accuse vaghe, buone solo per sfogare un po’ di rabbia? Proviamo.

Con Baricco che si riferiva all’intelligenza novecentesca, anch’io ritengo che siano 4 i blocchi che rendono la Logica Aziendale ormai inadatta a gestire la realtà, o quanto meno questa realtà. 

Primo. È una logica che organizza porzioni di realtà e sceglie sistemi che le assicurino una certa permanenza, e non le costruisce prevedendo che abbiano una capacità di adattamento. Procede per blocchi successivi. In casi di eccellenza per successivi aggiustamenti grazie a continui feedback. Ma ipotizza sempre che il problema, evidenziato da quegli “avatar” che chiamiamo statistiche, sia fermo, stabile: la soluzione sta nella sua definizione. Così l’efficienza di una soluzione si misura sulla sua capacità di azzerare l’instabilità del reale, o quanto meno di prevenirla, o almeno di nasconderla. 

Secondo. È una logica che si fida di una particolare forma di sapere: quella specialistica. Anche qui è facile sentire il riverbero di un’illusione rischiosa: pensare che nella realtà si pongano problemi che si possono risolvere risalendo a un sapere particolare, circoscritto. Per fare un esempio, un problema alla schiena va curato da un medico, e preferibilmente da un medico specialista della schiena. La cosa può assicurare certi buoni risultati, ma l’idea stessa che esista qualcosa che si chiama “dolore alla schiena” (o mancanza di liquidità, si potrebbe azzardare), isolabile dal resto del reale (e dell’azienda), e un sapere ad essa dedicato, però incapace di giudicare ad esempio una poesia (o una carta dei valori), ha qualcosa di talmente riduttivo da apparire ridicolo.  

Terzo. È una Logica stanziale, che procede a partire da alcuni principi solidissimi, che adotta come precetti indiscutibili e che non riesce a cambiare se non con cicli lentissimi. Provo a spiegarmi. Non è un’intelligenza pragmatica, che cerca semplicemente la soluzione migliore, no. Lei ha bisogno di un principio (per dire, “il cliente al primo posto”) e poi è molto abile a dispiegare sistemi logici (sequenze di decisioni sensate) che sgorgano quasi in modo necessario da quel principio: per difenderlo, per tramandarlo, per migliorarlo. La cosa che non sa fare è cambiare quei principi: porli in discussione, immaginare di abbandonarli. Lo fa, ma con cicli, ripeto, lunghissimi. La cosa non sarebbe grave in un mondo che cambia lentamente, ma diventa un evidente ostacolo nel momento in cui il mondo si mette a correre.

Quarto. È una Logica che si crede razionale, che fonda la sua forza sulla convinzione di agire secondo razionalità. Qui l’errore è doppio: credere, cartesianamente, che esista un’intelligenza razionale (che si possa capire e gestire la realtà con il solo meccanismo della ragione) e credere, in sovrappiù, di esserne una perfetta espressione, aliena da qualsiasi rigurgito irrazionale. Non c’entra tanto come ci muoviamo come persone e la nostra permeabilità alle emozioni. C’entra com’è fatta la realtà, com’è fatto il mondo: non esistono alberi ma boschi, non esiste aria ma vento, non esistono pesci senza acqua e vegetazione acquatica. E tutte le volte che noi smontiamo questa semplice e primitiva unità, ad esempio con il sapere specialistico, oppure selezionando solo quello che è logico, noi perdiamo la presa su quello che studiamo, ci sfiliamo via dal reale: prima o poi tornerà a farci del male.

Vogliamo provare ad aprire queste quattro scatole e guardarci un po’ dentro, per capire meglio? 

Vorrei tentarlo in un ambito che mi è familiare. 

La consulenza Risorse Umane per la direzione aziendale.

Abbiamo visto quindi come una logica aziendale solida, definita, stanziale e razionale generi una serie di passaggi che progressivamente si allontanano dalla realtà fino a non essere più in grado di comprenderla, e ancor meno di abitarla e valorizzarla. Una serie di errori che poi portano all’inevitabile: tagliare i “costi” del personale, diminuire benefit e formazione, assumere persone meno competenti ad un costo inferiore. 

Le risorse umane si sono piegate anche loro, nel corso del tempo, alla logica aziendale. E come grandi aziende hanno espresso il loro potenziale e il loro lavoro nel corso del Novecento, anche le RU hanno prodotto buone prassi di eccellenza che chiameremo di Eccellenza, proprio per evidenziarne la loro indubbia efficacia e con lo spirito di beffa per la loro obsolescenza.

Sono tutto quello che ho imparato agli inizi del duemila.

Sono le risorse umane dei dell’employer branding dei career day e dei gadget, dei processi di selezione trasparenti e svolti secondo le più rigorose e scientifiche tecniche di assessment, con i test e questionari più all’avanguardia e sgrigliature adattabili alla multiculturalità.

Sono la formazione on the job, le esperienze di team building outdoor, le metafore dell’orchestra e del rugby, i test di valutazione in ingresso e in uscita – rigorosamente con risposte multiple validate e qualche trabocchetto -, il gradimento in likert e analizzato con deviazione standard, il tutor d’aula e qualche modulo in e-learning.

Sono lo sviluppo del talenti, le griglie e le tabelle di competenze, le indagini di clima con società di consulenza esterna, la valutazione 360 e il coaching sul dare feedback. Sono i colloqui di MBO e i feedback di performance, i piani di successione e i referral programme, i focus group sulla diversity & inclusion e i poster “No smoking company”. 

Scusate se sono andata su termini per addetti ai lavori. Ma è proprio qui che la logica si incastra.

Perché se qui parliamo dei migliori processi, di quelli che occorrono anni per formare, implementare, stabilizzare, accomodare. Quelli che sono le grandi e forti aziende si possono permettere economicamente e continuano ad accomodare secondo annuali cicli di controlli di qualità. Perché nonostante tutto questo il 43% dei lavoratori è insoddisfatto (prima che qualcuno gridi alla calunnia, stiamo parlando di un’indagine AON che ha coinvolto 5 milioni di persone, mi sembrano un buon numero)? Perché dal 2012 il livello dei lavoratori soddisfatti sta diminuendo anno dopo anno? 

Perché il lavoro delle risorse umane non riesce più a produrre impatto? 

Perché non deve più essere solo solido, deve saper cambiare densità. Nell’etica.

Perché non deve più essere solo definita, deve saper agire movimento. In rigenerazione.

Perché non deve più essere solo stanziale, deve saper muoversi spazio. Nel pianeta

Perché non deve più essere solo razionale, deve saper disporsi nel tempo. Nel futuro.

Perché non deve essere più una logica. 

Deve essere un mindset. Un cambio di paradigma. Un mindset sostenibile. 

Un cambio di approccio. Di sguardo.

E quindi dovete immaginare persone e consulenti con un mindset sostenibile, capace di allestire sistemi flessibili e radicati nell’etica, dotata di un sapere multiforme e pronto a connessioni e contaminazione, sufficientemente audace da riaggiornare spesso i propri principi e di vivere nel futuro, e felicemente estranea all’idea di dovere sempre domare in modo razionale la realtà in favore di un abitare il pianeta godendo delle sue bellezze. 

Adesso la domanda è semplice: guardandosi intorno, accade di vederla all’opera, gente del genere?

Beh, certo, sì. 

Per dire, molti dei professionisti HR sotto i 35-40 anni sono così. 

Se sono intelligenti, tendono a esserlo in quel modo. 

Ma non è solo un tratto generazionale. 

Se ci pensate bene, ci sono un sacco di ambienti, aziende, istituzioni, realtà, in cui potrete trovare, anche ai vertici, gente che la pensa così. 

Che agisce in quel modo. 

È perfino probabile che gran parte di quelli che stanno leggendo questo articolo siano persone cui viene abbastanza naturale stare al mondo in quella maniera lì. 

Insomma, non stiamo parlando di qualcosa di folle o utopico, stiamo parlando di qualcosa che c’è. 

E allora dove sta il problema?

Il problema è che se guardate tutta quella gente la vedrete costantemente in lotta con una qualche organizzazione più grande di lei, che non lascia passare quel tipo di mindset. 

Che la rallenta. 

Una specie di palude che la circonda e dove il mindset sostenibile spesso si impantana. 

Ma come è possibile? Se di sostenibilità si parla e se ne parla sempre?

Se tutti sono d’accordo e bisogna solo trovare il modo?

Sarebbe bello dire che è il Potere, a fregarla. 

Un Potere ancora legato al boom economico. 

Ma la cosa è più complessa. 

A fregarla è la logistica delle nostre aziende e delle nostre comunità, il design strutturale del mondo. A fregare il consulente che ha in mente un modo più adatto di fare formazione aziendale, non è l’autorità razionale di un CEO ottuso o la cieca rigidità delle tabelle di Finance: spesso è lo scetticismo dei manager, l’ignoranza dei colleghi e la pigrizia degli allievi. 

Il ventenne che avesse in mente una start up destinata a smantellare l’assurda complessità del pagamento delle multe (per dire) sarebbe fregato non da un competitor più potente, che non esiste, ma dal semplice fatto che il numero di persone che vivono grazie a quella complessità è sufficientemente alto da creargli intorno una specie di cordone sanitario. 

Voglio dire che sono le logiche del mondo a rallentare il nuovo mindset. 

Il modo in cui il mondo è costruito. 

D’altronde chi lavora con un mindset sostenibile all’interno di un’azienda non sta ridando la tinta alle pareti, ma sta abbattendo l’edificio per ricostruirlo con un sistema costruttivo diverso.

La sostenibilità non fa il decoratore, è un ingegnere strutturale. 

Per questo la logica aziendale le fa resistenza. 

Non vuole crollare. 

Sta su.

Ma allora come è fatto questo mindset sostenibile? Come riconoscere un consulente che abita questo tipo di paradigma? Non è facile spiegare, ma so che la strategia consulenziale di cui abbiamo bisogno non è un’intelligenza. Sicuramente userà catene logiche, per tenere insieme le proprie mosse, e utilizzerà il sapere per decidere quali fare. 

Ma non sarà un metodo, un approccio. 

Non si appoggerà su una rete di principi, non sarà in nessun modo una forma di razionalità. 

Sarà un fare. Sarà una prassi. Sarà una collezione di mosse. 

La strategia sarà un fare.

Non saprei spiegare bene, ma credo che sarà un fare animale, e quindi per lei pensare sarà un movimento del corpo

Mi piacerebbe una consulenza anfibia, per così dire, capace di prendere decisioni anche sotto la linea di galleggiamento della razionalità, anche in immersione, e consapevole di farlo. 

Ne sarà consapevole, e in lei finirà questa illusione igienista di pensare pulito. 

Pensare sporco, ma bene, è ciò che farà.

Sarà animale, e quindi collegata al desiderio, non a un principio morale, a un dover essere. Il pensiero c’entrerà con la fame e sarà probabilmente semplice. 

Comprendere sarà qualcosa di affine all’abitare, non all’andare a caccia. 

Conoscere smetterà di essere uno strumento di aggressione e dominio, e avrà a che vedere con il bisogno di ascoltare e di integrarsi.

Non saprei dire il perché, ma sarà nomade, un professionista nomade. 

Non avrà una casa, ma molte case. Tutte sarà capace di abbandonarle.

Credo che sarà una competenza diffusa, e non concentrata in alcuni luoghi deputati alla tecnica e al sapere specialistico. 

Sarà un talento collettivo e non individuale.

Mi aspetto che comporrà strategia capace di grande memoria e grande visione: nei momenti più belli, le due cose coincideranno.

So che sarà un consulente emotivo, non nel senso che scoppierà a piangere ogni tre minuti, ma nel senso che lavorerà a partire dalle emozioni. 

Si muoverà cercando di processare le vibrazioni che, attraverso le emozioni, riceverà dalle aziende e dalle persone che la abitano. 

Così, essere buoni professionisti coinciderà con la capacità di registrare il mondo, di sentirlo. 

Qualsiasi astrazione concettuale elaborata per sintetizzare a freddo la realtà sarà considerata una mappa semplicistica e dunque rischiosa. 

Nulla di cerebrale sarà considerato utile. 

Ogni prassi capace di educare alle emozioni sarà guardata con rispetto.

Ragionare sarà considerato un necessario mestiere di servizio.
Ed intuire diventerà il cuore di qualsiasi faccenda.

Tutte le decisioni, credo, discenderanno da un’unica abilità: riconoscere ciò che è morto da ciò che è vivo

Qualsiasi mossa farà, la farà per portarci a ridosso di un’energia. 

Non sarà una consulenza che sprecherà risorse a mantenere in vita, per debolezza, ciò che non vibra più. 

Non le sarà propria l’ambizione ad alterare il corso delle cose, ma se mai quella di saperlo riconoscere.

Non saprei articolare bene la cosa, ma credo che sarà un professionista superficiale, cioè leggero, precario, sottile. Si muoverà a vista, allo scoperto. 

Parrà, a tutti i consulenti che l’hanno preceduto, sottilmente ingenuo.

Sarà femminile, nel senso che i maschi danno a questo termine. 

Sarà maschile, nel senso che le femmine danno a questo termine. 

Sarà imprendibile.

Userà i numeri per controllare il mondo e i nomi per perderne il controllo.

Saprà certamente calcolare ma spesso non lo riterrà opportuno. 

Saprà nominare, ma mai per de-finire il mondo, se mai per ri-cominciarlo.

Mi sembra ovvio pensare che sarà un consulente audace

Nel senso che non avrà paura di perdere e di trovare. 

Chiunque fabbricherà paura sarà di intralcio, tutti quelli che la moltiplicheranno saranno accompagnati gentilmente fuori. 

Gli esploratori avranno un posto speciale, li si riterrà necessari. 

Commiati, addii e distacchi saranno insegnati, come gesti artigianali da compiere bene: li si riterrà obbligatori.

E infine.

Sarà un consulente che non ci sorprenderà, perché abbiamo con lui/lei un appuntamento da un sacco di tempo. Lo riconosceremo come qualcosa che stavamo aspettando.

Moltissime persone ne fanno già lo statuto del proprio stare al mondo. 

Mentre accettano disciplinatamente la razionalità dominante, la praticano con l’istinto di chi non ha bisogno di capire. 

L’hanno imparata nei propri gesti. 

I più giovani l’hanno spesso ricevuta in dono e basta. 

Ce l’hanno talvolta senza sapere di averla. 

Tutti lo riconoscono, e contribuiscono a crearlo. 

Non c’è nulla di poetico né utopistico nel mindset sostenibile: è un fare condiviso da moltissima gente, che macina decisioni ogni giorno – è semplicemente uno dei motori che fanno girare il mondo. 

È un artigianato del vivere. 

Siamo destinati, mi sembra, ad affidargli quanto abbiamo di più caro. 

Tutto il nostro futuro. E il futuro dei nostri figli.

Un giorno, che faccio fatica a vedere così lontano, guarderemo il nostro andare, penseremo che mai più, mai più così, mai più, e alla precarietà ferrea di quel gesto artigianale affideremo quanto abbiamo di più caro. Sarà un giovedì qualunque, mi sa. Ma è anche possibile che sia stato ieri. Non so, potrei essermelo anche persa. Ero lì, nell’intento di scrivere un articolo un po’ difficile.

dott.ssa Lucia Giammarinaro